In My Humble Opinion: intervista a Bruno Ballardini

21/05/2021 @Faber

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Ciao Bruno Ballardini e grazie mille di essere nostro ospite per la rubrica In My Humble Opinion, dedicata ad una serie di conversazioni con professionisti della comunicazione e del design, ma non solo (IMHO).

Tu sei uno scrittore, saggista e pubblicitario italiano. Va bene questo ordine o non necessariamente in questo ordine?

 

In genere è sempre contemporaneo, tutto insieme. Sono uno che scrive. In Inghilterra, che è la madre patria dei grandi copywriter, oltre gli Stati Uniti, il copywriter viene chiamato writer, esattamente come lo scrittore. Qui in Italia si pensa che lo scrittore è quello che fa i romanzi, invece è uno che semplicemente scrive, è un lavoratore della scrittura.

 

Tu hai un percorso che è iniziato ibridato, nel senso che sei laureato in Filosofia del linguaggio, ma hai anche fatto studi al conservatorio in composizione per musica elettronica.

 

Il conservatorio non l’ho completato perché è morto il mio maestro e non mi interessava studiare con altri. In realtà lo studio al conservatorio partiva dall’idea assurda di voler fare il giornalista musicale. In Italia c’è tanta gente che scrive di musica senza conoscere una nota, senza capire nulla di musica; pensavo sarebbe molto più onesto avere una preparazione solida e sapere quello di cui scrivo. Tenendo conto del fatto che, già negli anni 70 – 80, la professione giornalistica era già finita e quindi non c’erano posti di lavoro, c’era gente che scriveva anche gratis e quindi era impossibile mantenersi facendo il giornalista e, ancora peggio, il giornalista musicale. Non ti possono pagare per una recensione.

Poi, ad un certo punto, qualcuno mi ha chiesto: “Ma tu quanto prendi per fare un articolo?”. Io ero arrivato al Corriere della Sera, senza raccomandazione. Pagavano molto poco perché, come poi ho scoperto anche nelle agenzie di pubblicità più grandi, più è importante la testata o l’agenzia e meno ti pagano. Perché loro ti dicono: “É già un onore che lavori per noi”. Poi questo personaggio, che era un marketing manager della Colgate Palmolive e mi diceva: “Tu scrivi in modo brillante, potresti fare il copywriter” e, io dicevo: “Il copywriter? E cos’ è?”. “Il copywriter è un redattore che fa i testi per la pubblicità. Quanto hai detto che prendi?”. Io all’epoca prendevo 80.000 lire per un’inchiesta che durava una settimana. “Ma sai, questi redattori di testi, i copywriter, prendono 8 milioni per due righe..”. “Che cosaaa??”.

 

Immagine Bruno Ballardini

Bruno Ballardini

Il mio obiettivo, in realtà, era quello di fare lo scrittore di libri, ma siccome sapevo benissimo che per molto tempo uno scrive libri, ma i guadagni sono aleatori, è un po’ una roulette e quindi pensavo di mantenermi facendo un lavoro che non fosse troppo lontano dallo scrivere, quindi scrivere. Errore gravissimo! Perché se voi fate giornalismo vi rovinate la scrittura, cioè rovinate la tecnica e la scrittura: prendete dei viziacci maledetti, in modo sciatto, appoggiandovi su luoghi comuni. Io posso dire di aver imparato a scrivere facendo il copywriter. Qualsiasi cosa vogliate fare lasciate perdere i corsi di scrittura creativa che sono una stronzata, tutti quanti, da Baricco in poi. L’unico modo per imparare a scrivere è scrivere. E poi leggere tanto, ma non per copiare, ma per ripercorrere dei percorsi logici, delle soluzioni. Come risolvi le soluzioni? Se hai letto un po’ di letteratura sai come risolverle.

Per mantenervi e scrivere, finché non diventate scrittori professionisti, è meglio fare un lavoro completamente diverso, così che la sera sei stanco, ma hai delle energie e delle motivazioni molto forti per fare con passione quello che volevi fare. Altra cosa è stancare il cervello con la scrittura facendo il giornalista o altre cose e i vizi presi durante la giornata te li trascini dopo, quando arrivi a scrivere.

 

Hai accennato alla tua esperienza come copywriter. Hai lavorato per alcune grandi aziende come BBDO, Young & Rubicam e Saatchi & Saatchi. Che cosa ti porti da quella esperienza di copywriter sia in termini di scrittura, ma anche in termini di cultura dell’ambiente lavorativo?

 

Due qualità che secondo me sono necessarie e se non c’è un ambiente che ti aiuta a svilupparle, come ad esempio la pubblicità, è dura conquistarsele da soli. In pochi anni ho imparato molta tecnica. Scavare nel linguaggio mi ha aiutato a sviluppare una percezione maggiore sulla parola, riuscire a scegliere meglio le parole. Poi le doti di logica, sapere quali sono i ragionamenti sbagliati, corretti o ingannevoli. E in saggistica è fondamentale. Io ho fatto il saggista fino adesso, ma quest’anno è l’anno in cui passo anche alla narrativa.

 

Quest’anno perché i libri che stai scrivendo sono più improntati verso la narrativa? 

 

In questo momento sto facendo tre libri contemporaneamente perché il lockdown mi ha fregato. Noi non ce ne siamo accorti, ma il lockdown ha eliminato il tempo. Il tempo scandito ritmicamente dalle attività normali che facevamo prima. É diventato un tutto unico e se non ti sai gestire bene, accumuli ritardi. I tre libri sono uno da ghostwriter a quattro mani con un amico. Poi c’è un libro in ritardo di almeno un anno ed è un’intervista impossibile ad un personaggio di 2000 anni fa (bellissima idea dell’editore, tra l’altro). Negli anni 70 l’aveva già fatto Umberto Eco e anche Manganelli per la radio. La forma radiofonica era più agevole perché durava 15 minuti massimo. Altra cosa è fare un’intervista di 200 pagine, ma me la sono cavata e posso dire che sarà un libro molto divertente. Il terzo è una traduzione, un libro divertentissimo dell’antichità, per una collana che io dirigo, Edizioni Mediterranee. Quello che posso dire è che è un libro cinese antichissimo che piacerà molto ai napoletani.

 

Parlando di libri, ne “La morte della pubblicità”, scritto da te nel 1994, si parla di MediaEvo. A che punto siamo? Siamo oltre il MediaEvo e, quando tu hai iniziato, qual era lo stato dei media e della comunicazione?

 

All’inizio il libro è stata una provocazione nata dalla rabbia che provavo, venendo da una formazione di filosofo del linguaggio, nel vedere che in uno dei campi dove si esercita maggiore ingegno (la pubblicità) non si investiva in ricerca e in sviluppo di nuovi metodi, nuove metodologie. Noi c’eravamo incartati a ripetere sempre le stesse formulette o a fidarci delle intuizioni dei creativi. Poi sono arrivati quelli del marketing delle grandi multinazionali ad azzerare tutto perché oltre alla creatività dovevi avere il metodo. Ma da parte nostra non si faceva ricerca, non si sperimentavano nuovi metodi come in tutte le scienze umane. Non puoi avere un metodo che dura per 30 anni. É immorale. Si parla di persuasione occulta, ma sono stronzate. Ci sono studi su come funziona la persuasione che lasciano il tempo che trovano perché noi non utilizzavamo nessuno di quei principi. Utilizzavamo inconsapevolmente qualche formuletta retorica e qualche fallacia logica, ma senza sapere cosa stavamo facendo.

Alcuni pubblicitari falliti hanno fatto dei manuali di pubblicità dove facevano un elenco di figure retoriche, come se noi utilizzassimo le figure retoriche! Noi, quando avevamo un briefing davanti, non è che ci mettevamo a pensare se mettere una sineddoche, non è vero niente. Erano dei pubblicitari falliti che sono arrivati a pubblicare dei libri che sono stati adottati anche dalle università. Questo perché, i poveri sfigati professori di sociologia della comunicazione, non capendo un cazzo di pubblicità, credevano realmente che noi utilizzassimo le figure retoriche o la semiotica. Ma quando mai un copywriter ha utilizzato la semiotica per costruire un messaggio. La semiotica serve per smontare, non montare, il messaggio.   

Queste fabbriche di disoccupati che si chiamano facoltà di Scienze della Comunicazione, nascevano con un grande inganno: illudere la gente di essere il ponte fra il mondo dell’università e del lavoro. L’approccio teorico non centra niente con la professione. Non è con la teoria che fai il mestiere del pubblicitario e di comunicatore. Da allora, tutta questa gente ha dovuto rivedersi: sono stati assunti nell’ufficio di comunicazione del comune di o del partito di, ma continuano a non capire nulla di comunicazione. Poi lavorando hanno imparato, perché è il lavoro che ti fa imparare. É una roba talmente pratica e pragmatica che non la puoi imparare teoricamente

Tornando alla domanda, io, per ‘morte della pubblicità’, intendevo dire che era un sistema già esaurito. Eravamo nell’epoca dei media monodirezionali, che vanno in una sola direzione (il pubblico). Internet si stava appena affacciando alla scena e non avevamo l’abitudine al dialogo. Il futuro della comunicazione è quello basato sul dialogo, quello interattivo. Ci siamo illusi che internet fosse interattivo, ma è sempre monodirezionale: nel migliore dei casi c’è una interattività minima, ma i percorsi cosiddetti interattivi sono stati già decisi da un programmatore. Interattivo è il dialogo che stiamo facendo adesso. Io, da molto tempo, dico che occorre iniziare ad occuparci di logica conversazionale. Questo è il futuro. Prima che prenda il sopravvento l’intelligenza artificiale.

La morte della pubblicità

La morte della pubblicità

La pubblicità che è morta è quella vecchia e stiamo tutti aspettando quella del futuro che ci sarebbe già: la transmedialità. L’utilizzo di tutti i media contemporaneamente dove il comunicatore non è un semplice web master o copywriter, ma un regista che crea lì per lì, in funzione del problema, un dispositivo complesso con tanti ingranaggi che sono old media e new media. Questo sistema esiste già ed è stato testato in guerra, come tutte le nuove tecnologie e, precisamente, nella guerra in Siria. Chi ha fatto il test è stato un esercito finto, quello dell’Isis. É stata la prima vera applicazione e, purtroppo, ha funzionato molto bene. Ha funzionato perché ha convinto un sacco di gente e l’ha attirata in una strategia. Ovviamente non dobbiamo pensare in questi termini.

Io sarei per l’abolizione della pubblicità se non è capace di avere un’etica. La vecchia scuola, quella della verità detta bene (lo slogan della McCann Erickson), oggi è un po’ in declino. In particolare, la decadenza è data dagli influencers: che bisogno hai di farti influenzare per decidere qualcosa? É un abbassamento di livello spaventoso. Nel Medioevo, come nel Mediaevo, la massa barbarica si lasciava guidare da capi o leader. Da una parte, c’era il rispetto verso le grandi casate che esponevano uno stemma. Questa è la politica del branding che è successiva alla pubblicità classica. É un rapporto di fede. Invece, noi della vecchia scuola, volevamo un rapporto basato sulla scelta consapevole ed avevamo gli strumenti per avere una scelta consapevole, ma non la persuasione. Quella la fanno gli uomini di pubbliche relazioni, i veri persuasori occulti. 

Siamo in un’epoca di grande buio e da questo punto di vista è Mediaevo e, se abbiamo ancora bisogno di influencers per farci un’opinione, è gravissimo. 

 

Questa pandemia è stata la sublimazione del fallimento della comunicazione politica e della comunicazione scientifica. Sei d’accordo con questa visione? Poi, con te, volevo mettere in luce anche un altro aspetto: questa pandemia, in Italia, ha dato spazio a qualcosa che noi come agenzia di comunicazione abbiamo molto a cuore e cioè che l’idea di una cosa così delicata, come una campagna strategica di sensibilizzazione (campagna vaccinale), fosse affidata a chi di comunicazione non capisce niente (l’architetto Boeri). 

 

Tutto quello che è successo è causato dalla crisi della politica e dal livello bassissimo della classe politica italiana. Per una serie di motivi abbiamo portato in parlamento il peggio che c’era, persone che spesso sono peggio di noi e questo nella polis greca non era l’equivalente della democrazia. La democrazia classica antica era un governo di saggi selezionati tra quelli che avevano dimostrato di avere la conoscenza. Non il governo dei migliori di adesso (uno slogan). Da questa classe politica non possono uscire proposte intelligenti dal punto di vista della comunicazione e, quindi, la crisi della comunicazione è la crisi della politica

In questa bassa cultura, si ritiene che l’unica figura professionalmente valida e riconosciuta nella creatività è l’architetto. Il pubblicitario non esiste e non è mai esistito. Io mi sono battuto, all’epoca, per il riconoscimento della professione. All’interno del parlamento, non capiscono un accidenti di comunicazione. Con tutto il rispetto, ma scegliere Rocco Casalino come portavoce. Chi cazzo è Rocco Casalino? Ci sono migliaia di studenti o ex laureati di Scienze della Comunicazione che sono più preparati di lui. É lo stesso motivo per cui hanno scelto Boeri: in quell’ambito nessuno affiderebbe una campagna governativa a dei pubblicitari perché c’è ancora lo stereotipo e il pregiudizio per cui non si sa chi sono i pubblicitari. Sono tutti stereotipi culturali stupidi, che però stanno nelle istituzioni. Non mi pronuncio sull’azione di comunicazione fatta da Boeri perché è una merda. Va bene per un popolo infantile, però con uno stereotipo buonista democristiano. In un paese normale si faceva un bando di gara coinvolgendo i più importanti professionisti del settore. 

 

branding per la campagna vaccinale anti covid

Campagna (?) vaccinale anti-Covid in Italia

 

Quando ci sveglieremo da questo brutto sogno sarà sempre troppo tardi. Abbiamo da una parte l’incompetenza dei 5 stelle che ha tradito le aspettative di rinnovamento di tanta gente, riempendo il vuoto lasciato da una sinistra inetta, dall’altra la barbarie della lega e della destra assolutamente primitiva che non ha nulla a che fare con i partiti conservatori delle democrazie moderne. Non abbiamo nulla. 

Ero amico di Grillo. Tramite un amico comune, Grillo manda a dire a me (poi scopro anche ad Oliviero Toscani) di partecipare ad un brainstorming dando il nostro giudizio sul nome 5 stelle. Loro chiedono un giudizio quando hanno già deciso una certa cosa. La risposta che ho dato io è la stessa identica che ha dato Toscani: “Ma che cazzo è, il nome di un albergo?“. Chi capisce che le 5 stelle sono i 5 punti del programma? E loro hanno risposto: “A Beppe piace tanto”. Ma allora perché cazzo ci avete chiamato? All’inizio sembrava una persona ragionevole (Grillo). Loro hanno un’ idea malsana di democrazia. In tutte le società, le decisioni vengono prese da una sola persona, dopo aver sentito tutti. Questo assemblearismo anni 70 non funziona. Per fare una riunione dove tutti decidono insieme tutti quanti dovrebbero essere a livello altissimo. 

 

Foto di Oliviero Toscani

Oliviero Toscani

 

Anche se vi capitasse di lavorare per dei politici voi dovete mantenere la vostra dignità professionale: non prostituirvi mai, ma da un punto di vista di pensiero, di onestà intellettuale, perché se il committente vi costringe a fare qualcosa di non corretto dovete fare i conti con la vostra coscienza. Il comunicatore consiglia il committente a fare le scelte migliori.

C’è stato un periodo in cui le grandi agenzie avevano un flusso di cassa notevole ed erano anche in grado di dire no. Quando siete piccoli, con pochi clienti è più facile essere ricattabili. 

 

L’Italia è ritenuta la culla del design, però si è sviluppato solo in settori specifici come l’architettura, il design di prodotto, la moda. Non siamo arrivati mai ad avere lo stesso livello nel campo del web design. Come mai, rispetto ad altri paesi, siamo rimasti così indietro? 

 

Perché noi crediamo di essere creativi. Per eredità storica dal 500, dal Rinascimento, noi pensiamo di essere ancora quelli lì. Siamo un paese narcisista dove tutti credono di sapere tutto. Nessuno mai si limita a parlare di quello che sa, ma parlano anche di quello che non sanno. I clienti si fanno la creatività da soli o ti dicono come dovrebbe essere. Questa è una forma di arroganza data dall’ignoranza. Noi crediamo di essere quello che non siamo, mentre in paesi anglosassoni c’è un’etica del lavoro quasi calvinista, per cui si lavora per migliorarsi. Noi siamo già perfetti perché siamo gli eredi di un popolo di “santi, navigatori e poeti”. Balle che sono state fissate definitivamente dal fascismo.

Ad esempio, nel cinema, i nostri sceneggiatori, registi ed attori fanno cagare, perché c’è un privilegio di casta e i pochi che sono arrivati a fare cinema non fanno passare nessun altro e quindi non c’è riciclo e lavoro che permetta alle persone di migliorarsi. Nell’ industria americana quando gli sceneggiatori scioperano si ferma tutto. All’istituto di cinematografia a Roma, insegnavano ancora con i libri di Age e Cerami, invece di conoscere le teorie nuove come Il viaggio dell’Eroe di Vogler. Su questo libro si sono formate generazioni di sceneggiatori e di narratori perché le tecniche che si usano sono le stesse. 

Faccio un esempio: gli spagnoli hanno fatto La casa di carta. Non potevano farlo qui in Italia? Ormai oggi nessuno finanzia più il cinema e arriva Netflix e ti pagano. E lo dico a quel mezzo addormentato del ministro Franceschini che parla di un Netflix italiano, quando queste piattaforme esistono ormai da un pezzo ed ora ce ne sono anche altre più piccole molto competitive sul mercato.

 

Trattando la parte finale dell’intervista, io volevo scendere a livello geografico a Napoli. Qualche anno fa, parlando di rebrandindg, il museo Madre concesse il rebranding del proprio logo ad un’agenzia milanese e da qui ne derivò una diatriba. Secondo te, come mai il mercato dell’offerta a Napoli, e più in generale del Sud Italia, non viene considerato come possibile opzione dal mercato della domanda autoctona?

 

Io penso che i napoletani dovrebbero andare a Milano a prendere i clienti milanesi. Non avete nulla di meno di loro da un punto di vista tecnico e c’è anche un tessuto, che nel mio piccolo spero di aver contribuito a costruire, di creativi e comunicatori bravi. Ci sono delle isole sperdute come un’agenzia di comunicazione a Bari che cura molte campagne politiche e lo fa ad ottimi livelli, ma sono casi isolati. A Napoli c’è un tessuto di agenzie e di gente brava. Si tratta di superare il pregiudizio che i clienti napoletani vanno a Milano perché lì c’è una tradizione. Non è più così. Quelli bravi che conosco non ci sono più a Milano e avete la strada spianata per andare a prendere i clienti a Milano. Le aziende della Campania e del centro Sud devono restare a Napoli. É quello per cui mi sono battuto io, sempre. Una volta era necessario andare a Milano, perché era la capitale. Poi la capitale è diventata Roma. Questo mito milanese risale agli anni 50 quando la gente del Sud saliva al Nord per cercare lavoro con le valigie di cartone. Ma la generazione odierna non è più quella degli anni 50. É fatta di gente preparata che deve vendere cara la pelle.

 

Cosa consiglieresti a Bruno Ballardini da giovane?

 

Di fare gli stessi errori che ho fatto. Possibilmente farne di più. Perché è dagli errori che si impara.

 

Voglio chiudere il cerchio con la tua passione per la musica.

 

La musica è una cosa importantissima e tutti dovrebbero coltivarla. Non importa se la fai bene o male, ma è una cosa che fa bene all’anima, rilassa. Un consiglio che posso dare è di ascoltarne tanta, del resto un creativo dovrebbe consumare di tutto, dai libri, alla fotografia, al cinema, tutto. Nutrirsi di alimenti nobili.

 

Cosa stai ascoltando ultimamente?

 

Ultimamente sto ascoltando rock progressive. Ho scoperto che è tornato di moda e c’è un pubblico di nicchia che mantiene alta la passione per questo genere. Il mio amico Fabrizio Dossena, chitarrista e produttore, se ne è appena uscito con questo disco dei Noisy Diners e stiamo a livello internazionale. Un prog internazionale fatto da italiani.

 

copertina del disco dei Noisy Diners

Noisy Diners

 

Così come un mio carissimo amico e ex allievo, Davide Pistoni, insieme a Guido Bellachioma, sta per uscire con un altro disco di prog dedicato a Demetrio Stratos con ospiti eccezionali come Nocenzi del Banco del Mutuo Soccorso. Questo è quello che sto ascoltando in questo momento, ma in realtà ascolto di tutto. Noi abbiamo un sacco di gente brava che non riesce ad emergere. Sarebbe ora di dar loro lo spazio che meritano. La mia lotta contro questo meccanismo è fargli pubblicità e aiutarli come posso. 

 

Bruno ti ringrazio tantissimo per questa intervista! 

 

Grazie a voi!