Debbie Millman, una delle guide più luminose sul graphic design e le sue infinite declinazioni. Il nostro time leap di Design and Dev, la pagina che più di tutte ci è costata fatica e ingegno, è ispirata e dedicata a te. Sì, perché quando per la prima volta ascoltai il tuo famoso TED “How symbols and brands shape our humanity” ne rimasi folgorata. 15 minuti di salto nel vuoto, dal Big Bang al 2017, che svelano l’umanità attraverso i suoi simboli e la caparbia velleità di comunicarsi.
Veniamo prima di tutto a te. Chi sei? Già per chi non ti conosce, ecco qualche informazione. Iniziamo dai titoli, perché la lista è lunga. Allora, tu sei una scrittrice americana, designer, educatrice, curatrice, artista e creatrice di un podcast unico e primo nel suo genere, dal nome Design matters, che parla di Design (what a twist!) attraverso interviste da te condotte a molti dei più importanti esponenti del campo citato e non solo. Parliamo di figure mitologiche del calibro di Stefan Sagmeister, Massimo Vignelli, (entrambi inconsapevoli interpreti della nostra pagina Media), Marina Abramović, Chris Ware, Marian Bantjes..vabbè avete capito no? Inutile che continuo, gente con cui vorreste passare il sabato sera a bere una birra a Piazza Bellini, disquisendo magari del perché Stefano Boeri ruba le primule agli studenti e nessuno lo ferma. Ma vabbè, quella è un’altra storia. Comunque Debbie, sei anche Presidente Emerita dell’AIGA (American Institute of Graphic Arts) e co-fondatrice del Master in Branding alla School of Visual Arts a NY (? my wish list).
Ok, direi quadro completo. Passiamo al branding secondo te. In questo intervento, tradotto in 22 lingue e tenutosi in occasione del TEDWoman2019, parli degli esseri umani e di come fin dalla prima apparizione sulla terra hanno scelto il linguaggio visivo dei simboli per comunicare valori ai propri simili. Parli di come, fin dai primordi, i concetti dell’inclusione e dell’esclusione siano ramificati nelle nostre strutture sociali e prima ancora nelle nostre tecniche di sopravvivenza. Sei con me o contro di me? Credi nello stesso dio? Riconosci il valore del simbolo divino dipinto sul mio volto o sulla mia casacca?
Debbie e la religione, come forma atavica di branding. Quei simboli creati dalle persone per le persone. Gratis. Dal basso verso l’alto. Dalla gente per la divinità. O meglio per tentare di avvicinarla. Questo è il primo concetto cardine del tuo intervento. From down to top, una serie lunga e a noi familiare di simboli che in pochi attimi riusciamo a riconoscere tutt’ora, a un primo sguardo. A questo punto fai l’esempio della mano di Hamsa in Mesopotamia, della mano di Fatima nell’Islam e della mano di Miriam nell’Ebraismo. E dici che, nonostante la differenza culturale, la distanza geografica e temporale, alcuni elementi grafici, così come alcune caratteristiche nei rituali, nelle regole e nei luoghi di culto, sono sconcertantemente simili. Qui sotto trovate le tre ‘mano di dio’, appartenenti a tre religioni diverse, create in tre posti diversi della terra e lascio a voi giocare a ‘trova le differenze’. Assurdo vero?
Ma lo stupore non finisce e anzi monta quando parli del primo marchio registrato nella storia dell’uomo. La Bass Ale, brand di un prodotto che purtroppo ti è indifferente Debbie, la birra! E mostri anche il primo esempio di product placement della storia, avvenuto negli ultimi anni dell’800 in uno dei pochi media espressivi a disposizione, la pittura su tela. Un bar aux Folies Bergère di Édouard Manet, famoso no?, beh se guardate in basso sul bancone a destra e a sinistra, scorgerete il primo fantomatico logo registrato della birra Bass Ale.
Ci sono altri mille spunti e storie interessanti, come quello sullo svastica che in sanscrito significava “benessere”, “buona vita” e che a inizio Novecento molti marchi che conosciamo come la Coca Cola utilizzavano nella produzione di gadget, che ora ci sembrano egodistonici. Tipo questo apribottiglie a forma di Svastica. Eh. Appunto.
Ma la svolta sul branding c’è quando analizzi i marchi che ora sono padroni del mercato, dominato da multinazionali come la P&G, la J&J e la At&t. Niente down to top, niente gratuità, le regole del gioco cambiano. Qui si parla di consumatori, guadagni e investimenti. Quindi di un sistema Top to down, dalle società di capitali a consumatori di prodotti.
Questo fino al 2011. Occupy Wall Street e la Primavera Araba mostrano al mondo la potenza della rete e più recentemente, sui Social Media, hashtags come #blacklivesmatter e #metoo diventano simboli aggreganti di valori e significato. Come quelli religiosi del passato. Creati da tutti per tutti. Gratis, inclusivi, significanti.
Ultima tappa del tuo fantastico viaggio è il 2017 quando il “Pussyhat” viene indossato da milioni di persone che partecipano alla Women’s March di Washington D.C. Quel cappello non è stato creato per scopi di lucro, non è stato creato per apporvi un’etichetta, non è stato creato Top to Down. ”Oggi il capellino ‘Pussyhat’ – concludi – è la dimostrazione che il marchio non è solamente uno strumento del capitalismo. Il marchio è la profonda espressione dello spirito umano. Lo stato del marchio ha sempre rispecchiato la condizione della nostra cultura. È nostra responsabilità continuare a tener sotto controllo il potere democratico dei marchi, è nostra responsabilità creare una cultura che rifletta e onori il tipo di mondo in cui vogliamo vivere”.
Debbie oh Debbie! noi ci catapultiamo – qui plurale perché è l’apparato che parla – nel tuo mondo di idee, le sosteniamo, le discutiamo, le ibridiamo e ci teniamo a dirti che ovunque il tuo faro deciderà di puntare la sua luce non potremmo fare a meno di guardare in quella stessa direzione.